I tradotti testo e
audio-video delle righe comuni
del Pinocchio
@MarcoPolo_Pinocchio
alla Biblioteca nazionale di Roma
Le avventure di Pinocchio
righe finali del cap. XXXV
Traduzione di Liliana Cuzzilla
voce Diana Squillaci
audioregistrazione di Mariavittoria Ponzanelli
Nel grand’urto della caduta la candela si
spense, e padre e figliuolo rimasero al bujo.
— E ora?... — domandò Pinocchio facendosi
serio.
— Ora, ragazzo mio, siamo bell’e perduti.
— Perché perduti? Datemi la mano, babbino, e
badate di non sdrucciolare!
— Dove mi conduci?
— Dobbiamo ritentare la fuga. Venite con me
e non abbiate paura.
Ciò detto, Pinocchio prese il suo babbo per
la mano: e camminando sempre in punta di
piedi, risalirono insieme su per la gola del
mostro: poi traversarono tutta la lingua e
scavalcarono i tre filari di denti.
Prima però di fare il gran salto, il
burattino disse al suo babbo:— Montatemi a cavalluccio sulle spalle e
abbracciatemi forte forte. Al resto ci penso
io.
Appena Geppetto si fu accomodato per bene
sulle spalle del figliolo, il bravo
Pinocchio, sicuro del fatto suo, si gettò
nell’acqua e cominciò a nuotare. Il mare era
tranquillo come un olio: la luna splendeva
in tutto il suo chiarore e il Pesce-cane
seguitava a dormire di un sonno così
profondo, che non l’avrebbe svegliato
nemmeno una cannonata.
Sto mega stìpima ti epiàsai pèttonda to cerì
èsvisti, ce ciùri ce jò emìnai sto scotìdi.
—Ce àrte?--aròtie o Pinòkkio jènonda
lipimèno.
--- Arte, pedìmmu, ìmmaste màgni ce chamèni.
--- Jatì chamèni? Dòtemu to chèri , ciùrimu,
ce vrete na mi zzilistrìete!...
--- Pu me perrìse?
—Èchome na jirèzzome na fìgome metàpale.
Elàte methèmu ce mi sciastìte.
Pos ipe
otu, o Pinòkkio èpiae ton ciùrindu an do
chèri: ce parpatònda panda sti pundi ton
podìo, esclapìai ìsmia anu sto cannaròzzo tu
agrikù zoù: podò eperàsai oli tin glossa ce
appidìai te tri surìe ton dondìo.
Ma prìta na càmusi to mega appìdemma, to
burattino ìpe tu ciurùndu: anevàte ste
zzàppemu ce angagliaetème me olo to putìrisa.
Jà ta adda tharrò egò .
Pos o Geppetto estiàfti calà calà apànu ste
zzappe tu pedìutu, o calò Pinòkkio, ti
ìzzere cino pu ìpighe kànnonda, èristi sto
nerò ce acchèroe na nnatèzzi. I thàlassa ìto
àsqueto san enan alàdi: to fengàri elàmbie
me oli ti strafonghìandu ce to Piscikàni
ìpighe ciumònda m’enan ìplo tosso vathìo ti
manko mia kannunàta to ìsoe azzunnì.
@MarcoPolo_Pinocchio
a Gedda
Le avventure di
Pinocchio
righe dal cap. XXXII
Traduzione
e voce di Salvino Nucera
Riprese Video di Francesca Prestia
VideoSlide di Clelia Francalanza
Immagini
di Carmine Verduci
VideoSlide di Clelia Francalanza
— Levami una
curiosità, mio caro Lucignolo:
hai mai sofferto di malattia agli
orecchi?
— Mai!... E tu?
— Mai! Per altro da questa mattina in poi ho un orecchio che mi fa spasimare.
— Ho lo stesso male anch’io.
— Anche tu?... E qual è l’orecchio che ti
duole?
— Tutti e due. E tu?
— Tutti e due. Che sia la medesima malattia?
— Ho paura di sì.
— Vuoi farmi un piacere, Lucignolo?
— Volentieri! Con tutto il cuore.
— Mi fai vedere i tuoi orecchi?
— Perché no? Ma prima voglio vedere i
tuoi, caro Pinocchio.
— No: il primo devi essere tu.
— No, carino! Prima tu, e dopo io!
— Ebbene, - disse allora il burattino -
facciamo un patto da buoni amici.
— Sentiamo il patto.
— Leviamoci tutti e due il berretto nello
stesso tempo: accetti?
— Accetto.
— Dunque attenti!
E Pinocchio cominciò a contare a voce
alta:
— Uno! Due! Tre! —
Alla parola tre i due ragazzi presero i loro
berretti di capo e li gettarono in aria.
E allora avvenne una scena, che parrebbe
incredibile, se non fosse vera.
Avvenne, cioè, che Pinocchio e Lucignolo,
quando si videro colpiti tutti e due dalla
medesima disgrazia, invece di restar
mortificati e dolenti, cominciarono ad
ammiccarsi i loro orecchi smisuratamente
cresciuti, e dopo mille sguaiataggini
finirono col dare in una bella risata.
- Guàlemu ena spilo, agapimmènomu Lucìgnolo:
canèna kerò epòniese asce mia arrustìa st’aftìa?
- Canèn kerò!... C’esù?
- Canènan kerò! Jà to addho pùccia attepurrò
ce pai ambrò acomì echo en’aftì ti mu canni
na ponìo.
- Ciòla egò echo to pònossu.
- Ciòla esù? Ce pio ene to aftì ti su ponài?
- Ola ta dio. C’essèna?
- Ola ta dio. I arrustìamma mmiàszi?
- Fiffèome ti ene otu.
- Mu cànnise mia charapìa, Lucìgnolo?
- Su tin canno! Me oli tin cardìa.
- Mu cànnise na ivro t’aftìasu?
- Po’ dde? Prita thelo na ivro ta dicàsu,
agapimmèno Pinòcchio.
- De, to protinò èchise na isso esù.
- De, pedìmmu! Prita esù, plen apìssu egò!
- Calà – ipe tote to burattìno – pose calì
fili cànnone ena orcarìo.
- N’acùome tuto orcarìo.
- Guaddhòmmasto tin berrìtta ismìa: thèlise?
- Arte avlepòmmasto!
Ce o Pinòcchio acchèroe na metrì me spilì
fonì:
- Ena! Dio! Tria!
Ston logo “tria” ta dio pedìa epiàsai te
bberrìttendo andin ciofalì ce te ppetàsai
ston àero. Ce tote efàni enan prama ti sonni
dighi apìstesto an den ito alithinò.
Efàni, thèlome ipi, ti o Pinòcchio ce o
Lucìgnolo pote evlepìthissa oli cidìo
piammèni andin lipìa ammiasimmèni, den
emìnai lipiamèni ce cholismèni, accheròai na
canunìusi t’aftìando parapoddhì fuscomèna ce
apìssu chigghiàra chacchalumìa etegghiòsai
m’ena anicto jèlima.
Il
racconto dell'esperienza sul campo di mia
madre,
studentessa universitaria a Messina
nel 1945-46
Nell'autunno
del 1945 mia madre, Sara Romano, che viveva a Reggio
Calabria, frequentava l'ultimo anno
all'Università di Lettere Classiche di
Messina. Insieme ad un gruppetto di studenti
della prov. di RC, sotto la guida di un
docente che aveva collaborato negli
anni '30 alla ricerca documentale del prof.
G. Rohlfs, partecipò alla raccolta di
materiali audio, tramite magnetofono,
a Bova, Cordofuri e Gallicianò.
La famiglia di mia madre ha vissuto
dall'estate 1943 alla primavera 1944, a S.Eufemia d'Aspromonte e là lei aveva
assorbito parole e linguaggio locale, mentre
in precedenza, in casa, l'italiano era
l'unica lingua ammessa-parlata, l'eccezione
era mia nonna che se si arrabbiava usava le
esclamazioni in napoletano, che ho ascoltato
a lungo anche io.
Il professore e quel gruppetto di studenti
dedicarono a questo lavoro alcuni sabato di
quell'autunno, andando nei tre paesi ed
intervistando i passanti e poi trascrivendo
su carta quanto registrato in audio. Col
magnetofono in funzione, con un'autonomia di
sessanta minuti, tanto duravano le
batterie-pile, il professore parlava in
italiano, gli studenti reggini dicevano il
termine corrispondente in dialetto reggino/aspromontano
e i passanti interpellati il corrispondente
termine grecanico.
L'attenzione-passione per
l'oralità come testimonianza viva-trasparente
a me è arrivata anche dai suoi racconti, da
quelle occasioni di incontro-ascolto di cui
più volte mi ha reso partecipe.